PMagazine

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Siamo in dirittura d’arrivo a Milano per conoscere e intervistare il Nuovo Volto di PMagazine, uno dei Designer più famosi a livello internazionale, Alessandro Mendini, architetto, designer, giornalista e critico d’arte.

E’ un piacere essere ospitati all’interno del suo Studio – Atelier, dal quale sono usciti prodotti per rinomate aziende, divenuti icone del design made in italy, come la poltrona Proust e il cavatappi Anna G. Entrando è come se il tempo si fermasse; una sorta di mondo metafisico si mostra ai nostri occhi – catapultandoci in un’altra epoca – colmo di oggetti  dalle mille facce e dai mille colori, dalle mille forme e dalle mille sembianze. Un mondo all’Arlecchino, dove arte e design si fondo, dando origine a pezzi unici nel loro genere.

L’Architetto Mendini, già da anni menzionato nei libri di storia, compare come per magia sul soppalco, ricavato mediante l’utilizzo di un ponteggio, le cui assi scricchiolano al suo passaggio.

Iniziamo così la nostra intervista in una stanza per metà di vetro collocata al centro dello Studio, caratterizzata da vetrate con montanti in metallo verniciato di giallo, tra flash di macchina fotografica e opere d’arte dai colori accesi e contrastanti, disposte ovunque intorno a noi.

Dove risiede secondo lei il confine tra design e arte, ovvero quando un oggetto appartiene al mondo del design e quando entra invece a far parte del mondo dell’arte?

“Quello fra l’arte e il design è un ping pong, per cui possono oscillare le situazioni: se da una parte si va verso l’essere solo il design, fino al design industriale di alta tiratura, dall’altra ci si muove verso l’artigianato per giungere fino all’arte. Più è complessa la funzione più ci si allontana dall’arte, e più la funzione si semplifica più si è vicini all’oggetto d’arte applicata, fino all’oggetto d’arte con tirature basse, o addirittura fino a essere solo un monotipo.

Il gioco è interessante, però non è questa la problematica più importante del design. Ecco, perché la sperimentalità semi artistica conduce ad alte possibilità di ricerca, dai materiali alle tecnologie. Un’automobile, o questo Sony, sono disegno industriale, invece un vaso o quella scultura lì possono essere viste come arte. Il vaso, per esempio, deve solo contenere i fiori, cioè non ha una funzione complicata; e nel momento in cui l’oggetto tende a diventare artistico, subentra l’abilità artigianale, per esempio, in un mobile intarsiato c’è l’artigiano, magari per un’opera che fa Jeff Koons, che assomiglia ad un oggetto funzionale, c’è alle spalle una grande acciaieria che gli consente di fare una cosa che non serve a niente. Esistono quindi tante possibilità molto interessanti. Quando l’oggetto diventa oggetto d’arte e partecipa all’Art Basel di Miami oppure entra nelle gallerie d’arte dei piccoli editori, che presentano oggetti a bassissima tiratura e ad altissimo costo; allora certi designer diventano designer artisti, come Ron Arad o Marc Newson. Invece, quando per esempio il prodotto disegnato è il telefonino, e chi lo progetta non è una persona ma un gruppo di seicento persone, e questo avviene soprattutto in Oriente, allora si perde l’identità del designer a favore della complessità tecnologica di un oggetto, il cui obiettivo è proprio la funzione. Ciò, comunque, non vuol dire che quel telefonino non abbia del tutto gli aspetti dell’arte, perché ha la magia di mettere in contatto due persone a 6000 km di distanza; è un oggetto un po’ sciamanico, particolare, che ha una grandissima presa sull’intercomunicazione.

Poi, infine, bisogna vedere quali sono gli obiettivi delle arti, ma questo è un altro discorso”.

Secondo lei verso quale direzione sta andando il design italiano? E vi è ancora una parte di esso dedicata alla performance artistica o è puramente industria?

“Secondo me il punto più avanzato della ricerca nel mondo è dato dall’arte, perché non ha vincoli funzionali, poi probabilmente viene la moda, che ha i denari per farlo.

Il design è sempre il più povero di tutti, perché le industrie italiane sono incerte, sono tutte in mezzo declino e comunque piccole. I tempi, poi, stanno cambiando. Rispetto all’industria dell’automobile o all’industria dei computer e telefonini, le aziende che producono oggetti di design hanno fatturati con uno o due zero di meno; per cui l’industria del mobile italiano, quella che ha fatto la storia delle icone importanti, è un’industria che vede gli stessi designer italiani sostituiti da cose che avvengono all’estero.

 

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Ricompare una specie di forma di produzioni piccole, basata sull’attività di rete dei Maker, contatti internazionali di persone che fanno gruppo senza conoscersi – cioè gruppi di solitari, perché un italiano parla con uno dell’Arizona e risolve un problema con un altro che è in Giappone e fa comunella con uno che è in Sicilia – e progettano oggetti che hanno la caratteristica appunto di essere autoprodotti, cioè di scivolare fuori dall’industria e nati in un’era molto più fresca, molto più moderna, e magari sono dei piccoli sistemi di pezzi unici.

E’ uno dei motivi per cui l’industria è in crisi”.

Di tutti i suoi magnifici progetti realizzati, qual è stato quello che l’ha coinvolta maggiormente?

“Io sono un padre di genere, di tantissimi figli, con l’obiettivo di dimenticarmeli per farne di nuovi, ecco certamente ci sono degli oggetti che hanno avuto più esito, non dico fortuna, esito di rapporto col pubblico, che mi piace che sia un rapporto antropologico più che funzionale ed estetico e che sono stati dei punti teorici che sono serviti di più rispetto ad altri nell’evoluzione del mio lavoro, però i miei progetti sono una popolazione di personaggi che vivono tra di loro, bene o male, e ci sono i buoni e i cattivi. Per esempio sono state molto importanti le riviste che ho fatto, ecco, che non sono oggetti, ma dei fenomeni di critica, di letteratura. Quelle sono molto importanti perché mi hanno fornito un’attitudine alla ricerca che si sviluppa sotto forma di continua curiosità di trasformismo. Poi ci sono degli oggetti fisici come il museo di Groningen in Olanda che è stato un po’ la mamma che contiene tanti oggetti miei, perché è un’architettura che protegge il mio design, fa un po’ da chioccia”.

3I suoi oggetti trasmettono emozioni, positività e allegria, fattore quindi forse anche legato alla Cromoterapia. Sta lavorando a qualcosa di particolare in questo periodo?

“Allora, io non ho mai parlato di cromoterapia parlando dei colori, anzi, la mia attitudine è che i colori tendono a stridere sia fra di loro, sia nei confronti di chi li guarda, per dare un po’ di shock ottici e psichici attivanti, cioè energetici; non sono rilassanti, è la mia attitudine al colore. In questo momento stiamo lavorando a vari progetti in Corea, molto diversi fra loro e molto articolati, che vanno dall’architettura di grandi interni a dei progetti di grafica, a delle art direction. Sono cose molto varie, tra le quali si crea una sorta di omogeneità grazie ai miei linguaggi, motivo per cui sono stato chiamato. Mi viene riconosciuta una grande capacità di dare stile alle cose, che si tratti di una torre, di una fermata d’autobus o di una bottiglia di profumo, oppure di sistemi di grafica, di lampade. In questo momento in Corea si sta sviluppando una grande ricerca, basata sia sulla mentalità orientale sia su alte tecnologie: la Samsung, per esempio, rende molto particolare e molto interessante questo genere di lavoro. Per cui non dico un lavoro, dico un sistema”.

Quindi lei parla di design a 360°.

“Si, mi è capitato così”.

Lei è un Designer a tutto tondo

“O a tutto quadrato”.

Cosa pensa del design che c’è stato in Italia, molto settoriale, fino a qualche anno fa? Molti designer o facevano solo architettura, o solo prodotto industriale, o solo grafica.

“Beh in Italia no, perché il design italiano è nato dagli architetti, il tipico è Giò Ponti, che però non è stato l’unico. In Austria c’è stato Hoffmann, che ha fatto dai portafogli in pelle decorata alle stazioni della metropolitana. Per cui in Europa l’architetto che fa tante cose esiste, non esiste altrove, cioè in Giappone un architetto di ospedali fa solo ospedali, in America l’architetto di grattacieli fa l’architetto di grattacieli, quello che fa i mobili fa i mobili. Qui c’è questa abilità eclettica che evidentemente deriva dal rinascimento. Si, c’è stato un periodo in cui certi architetti, certi designer, si sono stretti molto sui mobili per esempio o sui casalinghi, anche per via dei mercati e delle crisi che chiedono di concentrarsi su piccole cose e approfondirle bene”.

Mi parli della sua utopia visiva. Sappiamo che se la prendeva con il “bel design italiano” per contraddire un design puramente estetico. Oggi con chi se la prenderebbe?

“Quando parlo di utopia dico che di solito, e specialmente oggi, si guarda verso i progetti con un eccesso di realismo, di praticismo; e ci gioca dentro subdolamente l’ipertecnologia. Occorre una visione umanistica del futuro dell’umanità e dei termini di ampiezza dei discorsi. Bisogna mirare a delle cose che non si possono raggiungere e cercare di raggiungerle, sapendo che non le si raggiungono. Ecco, secondo me è questa la definizione utile di utopia. Oggi il mondo è caratterizzato dalla guerra, dalla cattiveria, dai drammi; il mondo è cattivo e il nostro mestiere è di lavorare contro questa situazione, facendo in modo che gli ambienti, gli oggetti, i sistemi di comunicazione sui quali lavoriamo, remino contro questa tendenza alla distruzione dell’umanità”.

Per i giovani Designer, un segreto di Alessandro Mendini…

“Non ce l’ho”.

Un consiglio?

“Nemmeno. Secondo me una persona deve consigliarsi da sola, non dico un paradosso. Una persona deve conoscersi, deve imparare a conoscersi, e deve imparare a diventare il consigliere di se stessa. Mi sembra importante”.

“Innanzitutto vi ringrazio perché avete avuto voglia di venire qua.”

No, siamo noi a ringraziare lei

Con queste semplici parole, di grande spessore, ci allontaniamo dalla scrivania di Alessandro Mendini con il ricordo di un luogo talmente al di fuori del tempo ma profondamente innovativo e attuale, da sentirne ancora l’odore.

Nicolò Andrioli

Photo by Alice Rainone e Ilenia Fontana