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Itinerari nei luoghi del tempo per un viaggio in Terra d’Otranto.

Uno sguardo al mare, verso l’orizzonte tracciato nell’acqua, e subito il pensiero si fa ricordo. Questo avviene ogni volta che ritorno nei luoghi che mi hanno vista bambina e dove ho vissuto con passione ed entusiasmo gli anni della gioventù. E penso sia così per chiunque abbia trascorso le prime età della vita scorrazzando per luoghi bagnati dal mare. Chi, come me, è nato ad Otranto difficilmente riesce a raccontare in poche righe l’emozione che si prova quando la luce e i colori della bella Hydruntum scolpiscono le pareti delle case e i vicoli lastricati. Hydruntum, sì, perché questo è il nome latino della cittadina salentina già capoluogo di Terra d’Otranto, terra che, come giustamente osservava P.F. Palumbo, “si scopre alla direttiva dello storico, ed emerge confusamente nella trama degli eventi, quasi in penombra rispetto alle idee e alle forze che prevalgono”. Si sa, nelle zone di frontiera, dove forte è l’urto tra le differenti culture che in essa si sono susseguite ed insediate, non possono esistere linee univoche che ne caratterizzino la storia.
Scegliere un itinerario che permetta di comprendere queste articolate vicende, significa andare a conoscere le superstiti vestigia di una cultura ricca di avventure umane, che si sforzano di rimanere vive testimonianze di un tempo trascorso, dove Bizantini, Normanni, Svevi, Angioini e Aragonesi hanno lasciato tracce importanti della propria presenza. Un viaggio insolito, quindi, quello che propongo, che attraversando pochi e sorprendenti luoghi si muova lungo le strade della storia; spazio e tempo strettamente connessi per disegnare un panorama dai linguaggi più vari e fortemente evocativi, dove la luce diviene l’elemento estetico più importante.
E’ d’obbligo, prima di giungere ad Otranto percorrendo la Statale 16, fare una deviazione verso Giurdignano, dove un tempo si ergeva la basilica di Sant’Arcangelo de Casulis, detta Centoporte. Oggi possiamo ammirare soltanto le ultime testimonianze di quell’affascinante luogo di raccoglimento interiore che baciava il verde della campagna salentina. Un pronao precedeva la basilica, divisa in tre navate, che si allungava per 28,30 metri. La navata centrale si presentava più ampia rispetto a quelle laterali e da esse era separata per mezzo di archi poggianti su pilastri. L’emiciclo absidale, le cui rovine vogliono sopravvivere alle incurie degli anni, concludeva la basilica. Ed è proprio la luce, a ridare forme e colori all’antica civiltà. Qui assume un significato simbolico, quasi mistico-sacrale, oltre che artistico e permette di raccogliere le parole di una favola lontana, scritta dai monaci che elessero a luogo di meditazione una Terra così accogliente.
Una volta giunti ad Otranto e abbandonata l’auto, il passo porta finalmente verso il centro storico.
La cinta muraria è munita di bastioni e torrioni e, così come oggi appare e come fu modificata da Alfonso d’Aragona, abbraccia gran parte del centro storico. La Torre Ippolita fu fatta edificare in onore di Ippolita Sforza, figlia del Duca di Milano e sposa di Alfonso, mentre la porta di accesso al nucleo medievale è detta proprio Porta Alfonsina.
Ne è parte integrante il poderoso Castello, il cui aspetto attuale risale al XVI secolo. Fu curato dai Viceré spagnoli di Carlo V, che modificarono la ricostruzione eseguita anch’essa da Alfonso d’Aragona. Una delle quattro torri di cui è dotato il maniero è innestata in un insolito “roccione” difensivo, ad angolo acuto, orientato verso il mare.

Camminando camminando, capita di imbattersi in uno scrigno architettonico di grande valore, una chiesa di piccole dimensioni, a croce greca inscritta in una pianta quadrata, con cupola bassa centrale e navate coperte a botte: l’edicola bizantina di San Pietro, risalente al IX-X secolo. Qui sembra prendere valore quel concetto di sviluppo del luogo di culto secondo cui in Terra pugliese le strutture planimetriche delle chiese rupestri, ipogei che troviamo disseminati un po’ in tutta l’area, siano passate col trascorrere dei secoli dal modello sotterraneo a quello di edificio facente parte della realtà più propriamente urbana. Questa chiesetta è ricca di affreschi, e particolare attenzione meritano quelli della Lavanda dei Piedi e dell’Ultima Cena, perché sono le più antiche lì presenti.
Se l’animo sensibile scivola tra le vecchie abitazioni del centro storico, nelle serate d’inverno il silenzio svela i segreti conservati tra le stradine, dove sembrano riecheggiare i passi della giovane Idrusa, protagonista de “L’ora di tutti” di Maria Corti: “Spesso, uscendo dalla porta centrale, scendevo verso gli ulivi della Rocamatura, camminando come i ragazzini, quando vanno soli per la via, e presi dalla meraviglia di essere nel mondo, fanno lunghi giri inutili: a vedere gli ulivi declinanti verso il mare…” E’ bello smarrirsi nei ricordi di chi è rimasto a custodire le testimonianze di ciò che non è più, come per esempio quando un vecchio pescatore che ancora oggi dipana le reti al molo, pur facendosi testimone impossibile della terribile battaglia della presa della città idruntina del tardo Quattrocento, racconta, con ineccepibile conoscenza delle correnti costiere, che in quei giorni c’era il vento di tramontana, e c’era, in Cattedrale, l’Arcivescovo Pendinelli. 
Ed eccola, la chiesa dedicata a Santa Maria Annunziata, sintesi di architettura, storia, religione; “si poggia” su una cripta risalente all’XI secolo, la più antica in Puglia, caratterizzata dalla incredibile eterogeneità delle 42 colonne che la compongono. La facciata, con spioventi laterali e finestre monofore, si presenta con un bellissimo rosone d’epoca rinascimentale. All’interno, si notano subito l’insolito soffitto a cassettoni della navata centrale, in legno dorato su fondo bianco e nero, e quelli eleganti nella loro semplicità delle due navate laterali, nonché l’antico organo risalente al XVIII secolo custodito nel transetto sul lato destro. Ma soprattutto, ciò che rende unica la basilica idruntina è il pavimento musivo, su cui non vorremmo mai poggiare i piedi per non disturbare quelle affascinanti figure che popolano l’Albero della Vita. In questo capolavoro, in cui è rappresentata la cultura medievale sacra e profana, episodi biblici e cicli narrativi si susseguono grazie alla realizzazione eseguita fra il 1163 ed 1165 da Pantaleone, monaco probabilmente proveniente dalla vicina scuola del cenobio basiliano dell’Abbazia di San Nicola di Casole. Di questa restano solo dei ruderi, che possiamo riconoscere se, percorrendo la litoranea che conduce a sud di Otranto, ci muoviamo all’interno di un vialetto sterrato che oggi ci conduce verso una masseria.
L’antica abbazia di San Nicola di Casole, nell’anno Mille divenne insostituibile e rinomato centro intellettuale del Salento, collegamento tra la cultura bizantina e quella latina, con una ricchissima biblioteca, fondamentale luogo di raccolta, trascrizione e traduzione di testi antichi, scenario di scambio diplomatico tra la Chiesa di Roma e l’Impero d’Oriente, i cui codici miniati possiamo ancora in parte ritrovare conservati nelle biblioteche vaticane e alla Sorbona di Parigi.
“Certo, è un’abbazia piccola ma ricca – ammise con sussiego l’Abate… Ma tutto è avvenuto nell’Edificio. Quivi, come forse già sapete, anche se al primo piano vi sono le cucine e il refettorio, ai due piani superiori vi sono lo scriptorium e la biblioteca”. E’ quanto leggiamo nelle prime pagine de “Il nome della rosa”, quando il dotto francescano frate Guglielmo da Baskerville, appena giunto al Monastero benedettino sui monti dell’Italia settentrionale, viene messo a parte del grave accadimento nel quale Adelmo da Otranto viene trovato morto. Nel romanzo, Adelmo è un giovane monaco, famoso come maestro miniatore. Chissà se Umberto Eco, quando scriveva di lui, lo aveva immaginato proveniente dall’antico cenobio salentino. A me piace pensare così…

Laura Rainone