PMagazine
L’occasione per il viaggio in Brasile arrivò inaspettata da un volantino affisso alla bacheca dell’Orto botanico di Milano. Un gruppo di amanti delle orchidee si stava organizzando per partecipare all’esposizione internazionale delle orchidee di Rio de Janeiro e proponeva un interessante pacchetto con tanto di escursioni in alcuni dei più bei parchi naturali del sud del Brasile, dove le orchidee crescevano spontanee arrampicandosi sui tronchi degli alberi, e pendevano copiose e delle specie più rare dai pali dell’elettricità.
Avremmo festeggiato il ferragosto nel mite clima invernale dei tropici. Il viaggio comprendeva una prima tappa a Salvador de Bahia. Sono innamorata dei romanzi di Jorge Amado e avevo appena riletto il suo “Dona Flor e i suoi due mariti”, e già la visita alla sua fondazione al Pelhourino valeva la pena del viaggio. Fu certamente questa la molla più potente che mi indusse ad accaparrarmi gli ultimi due posti disponibili, assieme all’amico frequentatore dell’Orto botanico che mi aveva parlato del viaggio.

Quando ci trovammo a Malpensa mi resi conto dell’estrema eterogeneità del gruppo. I veri amanti delle orchidee, una decina di persone in età abbastanza avanzata, erano lo zoccolo duro del viaggio. Mostravano di conoscere molto bene i percorsi perché li avevano fatti altre volte e avevano tutti i contatti giusti per muoversi con sicurezza in Brasile. Gli altri partecipanti erano aggregati spuri, come me, o parenti di vario grado degli orchidofili. Tra tutti una persona spiccava per la sua diversità ontologica, ed era una donna sui cinquanta, vestita come una Bond girl anni sessanta, o, più verosimilmente, come un personaggio da dolce vita felliniano.

Una grande massa di capelli ossigenati e raccolti a chignon in cima al capo, vestito  leopardato con scollatura generosissima su un seno prosperoso, stivaletti di simil coccodrillo (almeno spero) con tacchi a stiletto vertiginosi. E naturalmente trucco pesante e profumo ampiamente sparso. Era da sola e i suoi tentativi di socializzare con il resto del gruppo, quando si era ancora a terra, non sembravano sortire alcun effetto. Infatti tutti si chiedevano chi fosse e perché fosse lì. Il destino volle che mi trovassi a sedere accanto a lei durante il lungo viaggio che ci condusse all’altro capo del mondo.

Silvana, questo è il nome fittizio che le darò, veniva da un paesino dell’oltrepo pavese, dove esercitava il lavoro di maga, magia bianca però! ci tenne a precisare, subito dopo aver fatto le prime presentazioni, e me lo disse con la naturalezza con cui io le avevo detto che facevo l’insegnante. Aveva saputo del viaggio da un suo cliente abituale, che da Milano, dove lavorava come autista della linea che portava all’orto botanico, ogni mese andava a trovarla per partecipare al rito del fiume, in cui nottetempo, non ricordo se con luna calante o crescente, la maga sacrificava qualche gallina agli spiriti per la buona sorte del suo cliente.

Le chiesi di che spiriti si trattava, che si accontentavano del sangue di povere gallinelle, e lei, calando di molto il tono della voce, mi disse che erano gli orixas del candomblè. E lì svelò il motivo di quel viaggio in insolita compagnia, dato che delle orchidee non le importava nulla. Noi le stavamo solo dando il passaggio che attendeva da tempo, per tornare in Brasile a prezzo scontato,  il viaggio è tremendamente costoso, altrimenti! mi disse, con lo sguardo di chi chiede venia per un piccolo peccato commesso. C’era stata quindici anni prima e aveva avuto la consacrazione per poter praticare i riti del candomblè e dell’umbanda, che sono religioni sincretistiche brasiliane, nate dalla fusione dei culti animistici importati dagli schiavi neri con la religione cristiana dei colonizzatori portoghesi del Brasile. A distanza di anni però sentiva che quel potere, datole da una mae de santo, così si chiama la sacerdotessa officiante del rituale, una donnona vestita di bianco che era caduta in trance davanti a lei in un terreiro di Bahia, ora stava scemando. E glielo avevano fatto notare in più occasioni i suoi clienti, quando erano tornati a chiederle di restituire i soldi che le avevano dato, perché le magie richieste non si erano avverate.

La questione era molto seria e urgeva risolverla, perché ne andava del suo buon nome di maga professionale, con ricadute sul profitto che le permetteva di mantenere tutta la famiglia, madre invalida compresa.

Dunque, non appena arrivati a Bahia, ci avrebbe mollato, per cercare un contatto che la facesse partecipare a un terreiro in cui ritrovare la grazia degli spiriti orixas, che godevano della sua totale fiducia. Silvana mi disse che solo tornando alla fonte dei suoi poteri magici avrebbe potuto, sempre che gli spiriti lo volessero, continuare ad aiutare i poveri disgraziati che si affidavano a lei, e ora si sentivano abbandonati.

Nel suo beauty case, che mi mostrò in segno di grande fiducia, teneva una serie di ammenicoli, da lei definiti magici, e boccette di Sali, profumi, erbe che pare usasse durante i suoi riti.

Insomma, ancor prima di arrivare in Brasile, ero già atterrata nel mondo del realismo magico di Amado, che, come scoprii in quel momento, aveva fatto proseliti fin sulle rive del nostro Po.

Giunti a Bahia, fummo trascinati nel vortice di visite, spettacoli di capoeira, il più bello perchè improvvisato, quello sul sagrato di una chiesa dopo la messa domenicale, gite in battello alle isole tropicali, cene a base dei piatti tipici bahiani, serviti in giardini tropicali o presso le dimore coloniali messe a disposizione per l’accoglienza turistica. Ero così rapita dalla magia dei luoghi e dalle atmosfere esotiche che per qualche giorno persi di vista la maga del Po, che d’altronde non si era mai unita alle nostre scorribande. Aveva ben altro da fare, mi disse una sera in cui cenammo tutti in albergo per prenderci una pausa di riposo.

Era riuscita, in quei giorni, attraverso una frenetica ricerca tra il personale di servizio

dell’albergo, a ottenere il tanto agognato contatto per partecipare a un terreiro e riconnettersi agli spiriti orixas,  a cui avrebbe mostrato la sua devozione e chiesto perdono per il quindicennio di lontananza, con appropriati sacrifici.

E mi chiedeva ufficialmente di accompagnarla nella spedizione che si sarebbe tenuta quella notte stessa, in una località di campagna a quaranta chilometri da Bahia. Ci avrebbero accompagnato due ragazzi dell’albergo, assistenti personali della mae de santo che avrebbe officiato la cerimonia. Il ritorno era previsto per il mattino successivo. Ora si trattava di comperare le galline vive da sacrificare, che avrebbero fatto il viaggio con noi. Forse per deformazione professionale mi venne in mente il viaggio di Renzo Tramaglino con i capponi da portare all’avvocato Azzeccagarbugli, nei Promessi Sposi.

Per un istante fui tentata di partecipare a quello che poteva rivelarsi come un evento interessante sia dal punto di vista antropologico che religioso, poi decisi di accontentarmi dei confini più sicuri del viaggio con gli orchidofili e declinai l’invito. Ma la misi a parte di qualche preoccupazione che nutrivo nell’immaginarla da sola, in compagnia di due sconosciuti, nella notte tropicale, diretta verso un luogo sperduto di cui lei stessa non sapeva dirmi neppure il nome.

La maga del Po mi rassicurò con un largo sorriso, puntando l’indice verso l’alto. Il suo viaggio era governato da spiriti benevoli, come si stava dimostrando dalla meravigliosa serie di coincidenze positive che l’avevano condotta fin lì. Non c’era nulla da temere. Anzi, mi avrebbe portato un qualche segno di questa benevolenza, che, lei lo “sentiva”, si stava estendendo anche a me.

La mattina successiva tirai un sospiro di sollievo, quando la vidi al tavolo della colazione. Era scarmigliata, senza trucco e stranamente vestita con un casto completo pantalone di lino molto stropicciato. Ma dallo sguardo beato che mi lanciò capii che tutto si era svolto secondo le sue attese. Mi raggiunse in un momento in cui mi vide sola e, con aria solenne, legò al mio polso sinistro una cordicella rossa. All’orecchio mi sussurrò il nome dello spirito che d’ora in poi avrebbe vegliato sulla mia vita e di cui la cordicella era il simbolo.

La guardai allibita perché non avrei mai pensato che proprio quello spirito si interessasse alle mie sorti. Ma in quel momento stavano trasmettendo in filodiffusione Oh que serà que serà, la famosa canzone di Chico Buarque de Hollanda, che fa da colonna sonora al film “Dona Flor e i suoi due mariti”, tratto dal romanzo di Amado. E tutto divenne improvvisamente chiaro.

Daniela Faccenda