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Quel viaggio, a differenza di altri, in luoghi altrettanto remoti e diversi per cultura e tradizioni, mi tenne in bilico emotivamente tra fascinazione e repulsione, curiosità e fatica, disagio e coinvolgimento nella scoperta di un mondo a sé, non riconducibile ad alcuna iconografia tranquillizzante dell’esotico.

1A Kathmandu, capitale del Nepal, il 25 aprile 2016 si è commemorato il primo anniversario del terremoto di magnitudo 7.8 che ha devastato il territorio, ucciso più di novemila persone e distrutto una buona parte dei templi induisti e buddisti, patrimonio dell’Unesco e testimonianza della grandezza storica e spirituale di questo antico paese, povero, dignitoso e paziente.
Una delle agenzie più attive nel sostegno al popolo nepalese e nella ricostruzione di edifici di primaria importanza, quali ospedali e scuole, è A.S.I.A., Associazione per la Solidarietà Internazionale in Asia, fondata negli anni ’80 dal prof. Namkai Norbu Rinpoche, insigne maestro della tradizione Dzog Chen del buddismo tibetano, già professore di Lingua e Letteratura tibetana e Mongola all’Istituto Universitario Orientale di Napoli.
Alcuni anni fa ebbi l’onore di aggregarmi ad un gruppo di ricercatori e meditanti guidato dal maestro Norbu, per un viaggio di un mese tra Nepal e India, dedicato alla meditazione e all’insegnamento del buddismo Dzog chen, oltre che all’esplorazione dei luoghi in cui visse e portò la propria testimonianza spirituale il Buddha.
Quel viaggio, a differenza di altri, in luoghi altrettanto remoti e diversi per cultura e tradizioni, mi tenne in bilico emotivamente tra fascinazione e repulsione, curiosità e fatica, disagio e coinvolgimento nella scoperta di un mondo a sé, non riconducibile ad alcuna iconografia tranquillizzante dell’esotico. Si giunse a Kathmandu alle tre del mattino, abbastanza provati dal lungo viaggio, su un vecchio e scomodo velivolo della Aeroflot dai sedili sfondati, che ci costrinse anche a uno scalo tecnico di molte ore a Mosca.
Il primo impatto con la popolazione locale fu però rincuorante e positivo. E questo accadde in ogni momento e in ogni luogo del Nepal. Nonostante l’orario, i camerieri dell’albergo si diedero da fare per ristorarci e farci sentire bene accolti. L’albergo era molto lontano dagli standard occidentali, ma, come ebbi a capire non appena arrivò il giorno, dotato di comodità accessibili solo ai turisti. Ricordo ancora la consistenza cartonata delle lenzuola e l’odore acre della soda mista a cenere con cui veniva lavata la biancheria che ogni mattina consegnavo alle lavandaie dell’albergo. Preferii non indagare su dove andassero a lavare i panni, poiché il fiume, che scorreva non lontano e in cui tutti facevano le abluzioni, era limaccioso e malsano.
Durante il giorno, appena fuori dal recinto protetto dell’albergo, si muoveva una grande quantità di gente, soprattutto bambini, affannata a fare qualche cosa. Portare pacchi e valigie, offrirsi come guide per una passeggiata in Durbar Square, dove visitare i templi induisti e buddhisti che convivevano gli uni accanto agli altri senza soluzione di continuità, trascinare carriole piene di spazzatura, che di sera veniva disposta in un cerchio abbastanza ampio da far accomodare nel suo centro parecchie persone. Quando il traffico serale si fermava, a quella spazzatura veniva dato fuoco, in modo da riscaldare il sonno notturno dei piccoli abitatori della strada. Al mattino vedevi i cerchi scuri lasciati dall’incendio, ma di spazzatura non c’era più neanche l’ombra. Questi meravigliosi bambini, con i grandi occhi neri e la pelle cotta dal sole e dall’aria di alta montagna, non chiedevano mai denaro; dispensavano sorrisi e buonumore ed erano contenti se gli donavi un frutto e una carezza.
Kathmandu era, e a maggior ragione credo che lo sia ora, dopo un terremoto così devastante, una città caotica, priva di un piano regolatore, con strade strette e superaffollate di motorini e auto scassati, evidenti scarti dell’Occidente, che producevano un rumore e una puzza infernali. In mezzo a questa confusione si muovevano con agilità e perizia i guidatori di risciò, uomini giovani e meno giovani, magrissimi, che con tenacia infaticabile  conducevano turisti e gente del posto attraverso la città.
La mia guida, un ragazzo di forse vent’anni, ma poteva essere anche più giovane o più anziano, difficile dargli un’età tanto la sua vita faticosa aveva segnato il suo corpo e i tratti del viso, si incaricò di farmi conoscere i luoghi sereni e appartati della città e di riconciliarmi con una realtà altrimenti difficile da apprezzare. Quando guardo su internet le immagini di alcuni templi stupendi che sono stati letteralmente sbriciolati dalla forza devastante della natura, ripenso all’insegnamento buddhista del mandala, il disegno che i monaci compongono con infinita pazienza e perizia usando sabbia colorata e sul quale, quando è completato, soffiano, fino a farlo scomparire, per manifestare l’impermanenza di tutte le cose appartenenti al mondo della natura e dell’uomo.
Basantapur Durbar, uno dei palazzi reali, è collassato, la stessa sorte è toccata al palazzo della Kumari, la dea bambina, e al tempio di Pashupatinath. Hanno subito danni anche il complesso religioso di Swayambhunath e lo Stupa di Boudhnath, quello con gli occhi del Buddha che ti seguono ovunque, diventato famosissimo grazie al film di Bernardo Bertolucci “ Il piccolo Buddha”. Anche le piazze di Bhaktapur e Patan, nella valle di Katmandu, hanno templi e palazzi ridotti a macerie. Ma il simbolo del disastro è diventato per tutti la torre di Dharahara, quasi rasa al suolo.
Allora riaffiorano i ricordi magici di luoghi in cui la forza della spiritualità si imponeva alla confusione e alla precarietà dell’esistenza, e tutto diventava silenzio e contemplazione. Come a Swayambhunath, il “sorto da sè”, nella valle di Kathmandu, detto anche il Tempio delle Scimmie per via di una folta colonia che lo abita da sempre ed è considerata sacra.

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Per i buddhisti newari questo complesso, tra i più antichi del Nepal, costituito da numerosi templi, cui si sono aggiunti un monastero tibetano ed una biblioteca, ha un ruolo fondamentale, secondo solo al tempio di Boudhnath. Anche gli induisti lo venerano e vi si recano in preghiera. Per raggiungerlo, bisogna affrontare 365 ripidi gradini, lungo i quali si può sostare sedendo sui bordi di pietra, e facendosi intrattenere dalle scimmie, socievoli e abituate alla presenza umana. Anch’io ebbi la mia, una cucciola simpaticissima e affettuosa che mi adottò.
Si appollaiò sulle mie spalle e prese a coccolarmi e darmi baci sonori. Poi, mano nella mano, arrivammo sul pianoro in cui sorgono i templi e mi lasciai guidare da lei con piena fiducia che sapesse dove andare.
Ero arrivata assai turbata dall’esperienza forte vissuta a Pashupatinat, il tempio induista sul fiume Bagmati in cui vengono cremati i cadaveri, e ritornai al mio albergo ristorata e pacificata dalla visita a Swayambunath in compagnia della mia preziosa amica.
Pashupatinat è una visione chiara, concreta di quale distanza separa la cultura occidentale da quella induista riguardo la morte, e di conseguenza la vita. Questo è il tempio dedicato totalmente alla morte, ai suoi riti, alla sua visibilità e contiguità con la vita che continua. La zona delle pire è riservata agli uomini della famiglia del morto, riconoscibili perché vestiti di bianco, che allestiscono la pira con i fiori, le preghiere e gli oggetti cari al defunto. Ci sono sempre molte pire in attesa di essere bruciate e affidate all’acqua del fiume. Le donne, i bambini, gli anziani, i poveri, i sadhu (santoni itineranti che vivono di elemosine) hanno zone a loro riservate. Qui  vivono, dormono, fanno le abluzioni, pregano, mangiano. E intanto ragazzi e bambini setacciano il fondo del fiume in cerca di oggetti preziosi appartenuti ai morti. L’acqua di quel fiume è forse la più inquinata del mondo, ed è brulicante di vita!
L’odore che impregna il luogo è forte e ti entra dentro. Diventa parte di una memoria olfattiva ed emotiva che non si dimentica. Il Nepal ti mette di fronte alla nudità, all’essenza, alla fragilità e alla potenza dell’essere umano. Distogliere gli occhi dalle contraddizioni e dalle ingiustizie è impossibile. Tuttavia i nepalesi sembrano accettare con dignità, umiltà e un certo distacco, che potremmo definire saggezza, ciò che fa parte della loro faticosa vita materiale. Induisti e buddhisti hanno una concezione diversa della reincarnazione, ma in entrambe le religioni essa rappresenta una fatica dello spirito, che deve ancora essere liberato dai vincoli della materia.

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Il Nirvana dei buddhisti è il definitivo dissolversi dello spirito nella vacuità originaria, in cui il dolore e la fatica del Karma (susseguirsi di esistenze) finalmente scompaiono.
Altre immagini scorrono nel nastro della memoria. Una lunga sosta in Durbar Square, tra templi su cui sventolano centinaia di bandierine colorate recanti i mantra, le preghiere buddhiste, quando improvvisamente si viene attirati da una visione di pace e di serenità: sulla scalinata di un piccolo tempio color ocra numerose mamme stanno massaggiando con oli essenziali i corpi dei loro neonati mentre intonano il canto carnatico. I bambini si crogiolano al calore morbido del sole, cullati dal canto e leniti dal massaggio lento delle mani delle madri. Non lontano si erge il palazzo della Kumari. Devi, la dea bambina incarnazione della dea Hindu Durga, scelta tra le vergini della nobile famiglia newari dei Sakya, la stessa famiglia del Buddha Sakyamuni, che rappresenterà la reincarnazione della dea finché non avrà ferite da cui esca sangue, o la prima mestruazione. Povera bambina, costretta a un’infanzia da reclusa! Anche se venerata come una dea. E infine, la suggestiva visita notturna al tempio di Boudhnath, con il suo stupa imponente e gli occhi del Buddha della conoscenza e della compassione che sembrano illuminare l’oscurità e dissolvere le ombre. Attorno a questo tempio si è raccolta una folta comunità tibetana sfuggita all’invasione cinese del Tibet, durante la quale lo stesso Dalai Lama fu costretto ad allontanarsi da Lhasa e a rifugiarsi a Dharamsala, in India. Qui è un brusio sommesso e continuo dei fedeli che incessantemente fanno girare la ruota delle preghiere alla base dello stupa e recitano il mantra “om mani padme hum”, la cui traduzione è “saluto il gioiello del loto”. Il loto a cui si fa riferimento è il fiore meraviglioso, simbolo di suprema elevazione spirituale, che sarebbe nato al centro del lago che un tempo occupava l’intera valle di Kathmandu, e dove ora sorge il tempio più venerato dal Buddhismo newari. Secondo la tradizione Manjusri, Bodhisattva della Saggezza e della Compassione, considerato il Patrono del Nepal, decise di far defluire le acque del lago tagliando con la spada una montagna e creando la gola di Chobar, in modo da avere una pianura su cui edificare il tempio sacro del loto, attorno al quale si sarebbe sviluppata la città. Questa valle, in cui si trova la maggiore concentrazione di templi del mondo, ne ha ben sette dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Sarebbe stato bello poterla vedere nel suo stato originario, come accadde ai primi viaggiatori che rimasero affascinati dalla intensa forza spirituale e dalla bellezza architettonica e monumentale del sito.
Ma Kathmandu non è solo preghiera. C’è un interessante quartiere della città dove si sviluppano le attività artigianali tipiche e dove puoi trovare gioielli d’argento finemente cesellati e le famose pashmine, tessuti filati con la lana morbidissima del sottogola delle capre tibetane. E, sempre nella zona turistica e commerciale della città, sono localizzate le agenzie di trekking che organizzano i percorsi di ascesa in alta quota a vari livelli di difficoltà. Qui si trovano i celebri sherpa, guide e portatori locali esperti e resistentissimi, di cui si avvalgono le spedizioni che affrontano gli ottomila metri. Questo è il regno della passione verticale e dei suoi cultori.

Mentre stiamo scrivendo questo articolo la terra è tragicamente tornata a tremare, questa volta nel centro dell’Italia, portando morte e distruzione e sconvolgendo la vita di migliaia di persone. Questo evento, a pochi anni di distanza dal terremoto dell’Emilia, ci fa sentire ancora più vicini e solidali alla cara popolazione nepalese, e ai suoi sforzi per riemergere nonostante la povertà estrema e la solitudine di quelle latitudini. E ci dà la misura della fragilità umana, davanti alla quale solo gesti di solidarietà concreta possono far prevalere la vita e la speranza.

Daniela Faccenda