“Poi, quando torniamo alla nostra casa e alla nostra vita quotidiana, ancora per qualche giorno tratteniamo il piacere del viaggio.”
Ci sono luoghi molto piacevoli da visitare, dove scattare foto di angoli suggestivi, godersi panorami incantevoli, acquistare prodotti artigianali tipici, che poi faranno bella mostra di sé nel salotto di casa, e gustare la cucina tradizionale in locali turistici accattivanti. Poi, quando torniamo alla nostra casa e alla nostra vita quotidiana, ancora per qualche giorno tratteniamo il piacere del viaggio appena compiuto, ci sentiamo ancora a metà strada, tra l’interessante dimensione del nuovo che si era fatta largo in noi, e la realtà abituale, con i suoi ritmi e i suoi rituali, che ci aveva fatto piacere interrompere, ed ora si riappropria del nostro tempo, tranne che per quegli spazi di memoria persistenti e diversi dove continuano a vivere istantanee di spiagge assolate, o mercati pittoreschi, vette innevate o metropoli avveniristiche. Ancora per un po’.
C’è poi un altro genere di viaggio, che forse non ci si aspettava, ma per il quale eravamo pronti senza saperlo, il viaggio che imprime una traiettoria diversa alla nostra vita, ci apre a mondi di cui non sospettavamo l’esistenza, e dopo aver visto i quali non siamo più gli stessi.
Frida Kahlo rimase a lungo a New York con il marito Diego Rivera che stava dipingendo il murales del Rockefeller Center, tuttavia non fu veramente in pace fino a quando non ritornò nella sua amata, colorata, casa messicana. Lì c’era la sua anima, e con quella la sua arte. E pazienza se non c’erano i grandi mercanti d’arte di New York che avrebbero fatto la sua fortuna se là fosse rimasta. Quel viaggio le aveva confermato la sua appartenenza al Messico.
Gli artisti sono ovviamente sensibili al collegamento tra ambiente e ispirazione, dall’Ottocento in poi il nesso tra luogo fisico, anima e ispirazione artistica è diventato inscindibile.
Ma anche noi comuni mortali, con un poco di fortuna e di addestramento, possiamo riconoscere nella nostra vita l’influenza positiva di un luogo piuttosto che un altro, e il significato particolare di un viaggio che ci ha modificato dentro.
Il Sahara è stato il primo luogo che ha impresso un segno indelebile dentro di me. Già dopo il primo viaggio ho sentito che dovevo ritornarci quanto prima, perché avevo lasciato laggiù, tra una duna e un’oasi gorgogliante d’acqua sorgiva, qualcosa di mio.
E’ notte, in un accampamento beduino, davanti ad un grande fuoco una guida intona un canto religioso con voce dolce e potente, e il cielo fitto di stelle sembra una pesante coperta di velluto blu. Sono sotto la mia tenda, coricata su una brandina da campo, mentre una volpe coraggiosa, che sfida la presenza umana sul suo territorio, sta rovistando sotto di me in cerca di cibo, come tutte le sere.
La presenza del Divino è fortissima, eppure indicibile, se non attraverso quel puro canto di cui non so tradurre le parole.
Un giorno, alcuni anni dopo, ai piedi di un grande albergo occidentale con piscina e fitness e il solito pacchetto turistico, scopro un angolo quieto accanto a un marabutto, una piccola costruzione bianca che segnala la tomba di un uomo santo dell’Islam. Qui scorre un rivo d’acqua in cui un vecchio uomo pesca a mani nude dei gamberi d’acqua dolce che mi prepara per pranzo come gesto di accoglienza. Non vuole nulla in cambio. Mi benedice e io lo ringrazio.
Da due giorni siamo “asserragliati” dentro un caravanserraglio, alle porte del grande deserto, direzione Timbuktu, assieme ad altri gruppi di esploratori , mentre i nostri mezzi vengono completamente sommersi dalla tempesta di sabbia che infuria fuori. Abbiamo dovuto sigillare gli infissi con tutto quello che abbiamo trovato, ma la sabbia riesce a penetrare ovunque. Si mangia sabbia, si respira sabbia, si beve sabbia. Mentre il livello della sabbia cresce a tal punto che anche le finestre ne sono semi sommerse, riesco a lanciare un’occhiata fuori e vedo i dromedari immobili come statue, per nulla preoccupati. Quando la tempesta stava arrivando, ricordo che erano agitatissimi, mentre ora sono lì che accettano il loro destino con dignità.
Le alte vette dell’Himalaya, una strada che si inerpica là dove tante slavine di terra hanno disegnato precipizi spaventosi, e una corriera di latta sgangherata, che ci porterà in alta quota, da lì proseguiremo a piedi verso una radura in cui il Buddha ha vissuto una delle sue manifestazioni spirituali. Credo fermamente che questo sia il mio ultimo viaggio, nel senso che non ne uscirò viva, e sto scrivendo nella mia mente una lettera piena d’amore e di richiesta di perdono a mio figlio, ancora fanciullo, che ho lasciato a casa per intraprendere questo viaggio sconsiderato.
Quando finalmente, dopo ore di scossoni, sobbalzi, paure di ogni genere, su una delle strade più pericolose del mondo scendiamo e mettiamo i piedi a terra, arrivano dei bambini sorridenti, con le gote rosse come meline, che ci prendono per mano, curiosi di questi matti di turisti che si sono avventurati fin lì. La piccola mano calda che ho tra le mie mi commuove. Vieni, mi fa cenno, e mi porta con gentilezza in un punto in cui il panorama è indescrivibile nella sua maestosa grandezza.
Non ci sono conquiste grandi senza grandi sacrifici. Il mio bambino nepalese in quell’istante era mio figlio, era me bambina, la mia curiosità irrefrenabile, e la grazia con cui il destino mi ha protetto e benedetto con il calore e l’umanità che ho trovato ovunque a sostenermi. Grazie bambino nepalese, i cui occhi si sono aperti sull’infinita bellezza delle montagne più alte del mondo, la cui vita semplice e povera, umile e dignitosa in luoghi così aspri ha reso saggio e forte. Il tuo sguardo sorridente e misericordioso mi ha raggiunto nel profondo dell’anima. Lì era il Buddha.
Ho davvero compreso la verticalità solo a Manhattan. E con essa l’ispirazione a guardare in alto senza paura, a dare spazio alla realizzazione dei miei sogni, a sentirli legittimi. I suoi grattacieli svettanti, il dinamismo, la contemporaneità pulsante di New York mi hanno convinto a intraprendere un nuovo lavoro e dare alla mia vita altre chances. Ero partita, vari decenni fa, per incontrare finalmente quell’America che avevo studiato, letto, visto in mille film, tanto che mi sembrò di vivere un déjà vu, o forse di essere passata dall’altra parte dello schermo, quando mi trovai a passeggiare per Central Park o sulla Quinta strada. Non avrei immaginato gli effetti duraturi di quel viaggio. L’anima di New York mi catturò, costringendomi a chiedermi cosa volessi fare “da grande” e mi indusse a iniziare subito con coraggio, perché mi fece sentire quanto il tempo e lo spazio siano elementi assai preziosi, che non si possono usare con negligenza o incompetenza. Sono le coordinate all’interno delle quali si realizza la nostra vita. Sta a noi farne qualcosa di bello e di buono, che dia un senso al nostro esistere.
Poi ci sono viaggi che appaiono più come spostamenti, e il cui motivo può essere il lavoro, nostro, o di qualcuno della nostra famiglia, o lo studio, quando andiamo all’Università in una città che non è la nostra, o in una nazione che non è la nostra. In alcuni di questi casi ci sentiamo strani e stranieri nella nuova residenza, e non vediamo l’ora di tornarcene al nostro nido, appena possiamo. In altri invece ci sentiamo a casa come non ci eravamo mai sentiti prima, e cominciamo a mettere radici profonde in questa nuova terra, a smuoverla ben bene perché queste radici abbiamo sempre nutrimento e si fortifichino. Lì costruiamo la nostra vita.
E ci sono viaggi che hanno un sapore molto amaro, li chiamano viaggi della speranza, quando si fugge dal luogo che ci ha visto nascere e che ora potrebbe lasciarci morire, come una madre che non ha più alcun nutrimento da dare ai propri figli. Allora la terra che ci accoglie dovrebbe aprirci le braccia come una madre sostitutiva, perché siamo bisognosi di tutto e non portiamo nulla, se non l’occasione per chi ci accoglie di essere buono e soccorrevole.
Quali sono i viaggi che hanno cambiato la vostra vita?
Daniela Faccenda


