
Invece, dopo alcuni giorni di permanenza, che riuscì a sopportare grazie al conforto e alla solidarietà di una distinta signora parigina e della figlia dodicenne, anche loro bloccate sulla via di Damasco, dove erano attese dal marito diplomatico, le fu concesso di fare un’unica telefonata all’ambasciata italiana a Istanbul.
I poliziotti si erano convinti del fatto che Alba e Diego fossero solo due sprovveduti, e non ci tenevano a provocare incidenti diplomatici con una nazione che non si era ancora schierata apertamente contro il loro operato a Cipro.
Come c’era da aspettarsi in quei frangenti, i funzionari erano oberati di casi di rimpatrio come il loro, ma alla fine riuscirono a farli rilasciare garantendo anche il denaro sufficiente per pagare i biglietti dell’autobus, il cui costo era nel frattempo triplicato.
Furono però costretti a recarsi a Istanbul, dove il conducente della corriera, una specie di ammiraglio in divisa candida e gallonata, aveva l’ordine di portarli.
Furono mille chilometri lunghi e difficili, durante i quali la paura non abbandonò mai Alba e Diego. Lei si consolava ripetendo a memoria nella sua mente, come un mantra, brani di poesie, ritornelli di canzoni e persino versi della Divina Commedia, che avevano il potere di distrarla, spostandola dal momento presente. Lui era sempre teso e all’erta come un gatto.
Avevano deciso di ridurre al minimo i loro gesti d’intesa per non sollecitare fantasie pericolose negli altri viaggiatori, ovviamente tutti uomini.
Ma una sera, durante una sosta igienica in pieno coprifuoco, Alba per pudore si allontanò nel buio dallo spazio intorno alla corriera, dove gli uomini urinavano incuranti della sua presenza e fatti pochi passi si sentì risucchiare dalla terra. Atterrò urlando dopo alcuni metri su uno strato molle di una sostanza imprecisata, vischiosa e maleodorante che le imprigionava i piedi.
Guardò in alto senza vedere se non buio.
“Amore mio, amore adesso vengo giù, ti salvo, amore… non ti sei fatta male vero?”. La voce strozzata dalle lacrime era di Diego, che urlava e la implorava di stare ferma. Lo aveva sentito piangere una sola volta, di dolore e di rabbia, da quando erano insieme, alla notizia della morte del presidente Allende, durante il golpe militare in Cile.
Le cose si stavano mettendo davvero male per loro se potevano saltargli i nervi in quel modo!
Spaventata ancor più dalla reazione di Diego che dalla sua disavventura gli rispose immediatamente per fargli sentire la sua voce, e confortarlo.
Le operazioni per estrarla dal pozzo durarono un tempo che a lei sembrò infinito, e quando riemerse in superficie, acciaccata ma illesa, ci fu uno scoppio collettivo di gioia.
Era una statua di melma e puzzava in maniera indicibile.

Il tronfio comandante dell’autobus con aria disgustata si rifiutò di ripartire con lei a bordo, se prima non si fosse tolta gli abiti e lavata da cima a fondo. Poiché Alba, ancora sotto choc, temporeggiava, prese una tanica piena d’acqua e gliela gettò addosso. Diego, infuriato, gli si scagliò contro ma un anziano signore che viaggiava nei posti riservati e aveva l’aspetto di un notabile, lo fermò con gesto autorevole, aprì la sua valigia, ne trasse una bellissima tunica da donna di lana leggera, decorata con ricami di seta, profumata e avvolta nella velina: era un indumento prezioso, forse un dono da portare a una moglie o a una figlia, e lo consegnò con gesto compassionevole ad Alba, che riuscì a sillabare un grazie tra le lacrime e il tremito di freddo e di paura che non riusciva a frenare.
Come Dio volle arrivarono ad Istanbul. Avevano con sé tutto il peso di un viaggio imprevedibile, pericoloso, sicuramente alternativo e avventuroso, da cui erano usciti indenni e più forti. Ora rimaneva il compito più difficile: affrontare le loro famiglie, che nel frattempo erano state avvisate dall’ambasciata.
Erano al porto di Istanbul e c’era ancora tempo prima della partenza della nave per l’Italia.
Entrambi guardarono in direzione di un ristorantino dall’inequivocabile nome di Il Pireo. Avendo molto appetito, poco denaro e nessuna voglia di cibo turco, si avventurarono nel locale deserto, il cui proprietario non solo li accolse con un gran sorriso di benvenuto, ma servì loro ottime frittelle di cozze alla greca, e mussaka e tiropita e i dolmades.
Da quando quella maledetta guerra era iniziata, raccontò, era già un successo che non gli avessero distrutto il locale. Brindarono alla pace con una bottiglia di retzina e si promisero di rivedersi ancora, in tempi migliori.
Ad Alba il viaggio costò dieci chili di peso e il rifiuto di sua madre di parlarle per un mese, mentre la sorella e il padre erano curiosissimi, per motivi diversi, di conoscere i fatti. A suo padre ogni guerra ricordava la giovinezza, le sue imprese audaci di pilota dell’aeronautica militare, le fughe dai rastrellamenti dei tedeschi, lo stomaco vuoto e la capacità di fregare la morte ogni giorno, trovando di che vivere. Alessia a sedici anni era al suo primo innamoramento serio di uno studente greco di Medicina, tale Athanassios, detto Takis, che aveva convinto tutta la famiglia a parteggiare per i Greci.

Arrabbiati o meno con lei, erano così felici che fosse di nuovo a casa, sana e salva, da dimenticarsi in fretta le parole di riprovazione.
Il vero problema era la madre di Alba. Aveva vissuto giorni d’inferno in attesa di notizie, immaginando, come le era congeniale, gli scenari più cupi. Quando conobbe la verità, allo sgomento si sostituì la paura, la rabbia e la sensazione di essere stata tradita. Ormai non aveva più alcun controllo su sua figlia.
Qualsiasi cosa stesse diventando, non le piaceva affatto.
Quando riprese a parlarle le disse di aver temuto seriamente che non ritornasse più e il suo cuore aveva ripreso a battere solo quando l’aveva vista nel vano della porta, una zingara irriconoscibile, magra da far paura, probabile portatrice di virus e batteri contratti in quelle selvagge contrade, con cui avrebbe contaminato la pulizia e l’ordine perfetto della sua casa. Si era arrabbiata da morire, divisa com’era tra la voglia di prenderla a schiaffi e quella di tenersela stretta tra le braccia e cullarla come una neonata.
Se perdonarono lei, con Diego se la legarono al dito per sempre, considerandolo il vero responsabile di quella bravata.
In tempi normali un viaggio del genere avrebbe lasciato ricordi indelebili di luoghi, persone, situazioni ed emozioni, e lo si sarebbe potuto considerare una specie di percorso iniziatico che la vita, prendendoli in contropiede, aveva preparato per Alba e Diego, mettendoli alla prova, temprandoli e dotandoli di una maggiore consapevolezza.
Ma erano tempi accelerati, in cui il passato si bruciava velocemente, il presente assorbiva ogni energia e il futuro incalzava. Di quel viaggio straordinario ad Alba rimasero in tasca le due monete di bronzo con l’immagine corrosa di un imperatore romano e il tappeto da preghiera, opportunamente disinfettato da sua madre, e messo in soffitta.
Daniela Faccenda
FINE TERZA ED ULTIMA PARTE