Immaginate un piccolo paese, inerpicato su una collina della Val d’Orcia, che ad agosto era ancora tutta verdeggiante per via delle copiose piogge di luglio. Un paese bellissimo e vero, con le sue porte medievali che si aprono sulle mura di cinta, il suo centro storico perfettamente restaurato, le botteghe d’arte e di articoli turistici, belli anche quelli perché fatti artigianalmente o almeno scelti con gusto, e qualche zona periferica in cui la smania di costruire degli anni ’60 e ’70 ha lasciato il suo marchio di discontinuità estetica, se vogliamo benevolmente definirla.
Dove finisce il paese inizia una strada bianca, che si addentra per molti chilometri tra le vigne e gli uliveti, le forre boscose e i campi di avena e grano. Sulla sinistra, in lontananza il monte Amiata potente e sicuro si staglia nitido nel cielo privo di nubi. A destra è un orizzonte ampio di splendide colline digradanti verso la Maremma e il mare. Sui crinali antichi manieri e vecchi casolari, sempre gli aristocratici filari di cipressi secolari.
Di tanto in tanto lungo la strada si incontra una fattoria di contadini, il più delle volte trasformata in agriturismo.

Una sera di temporale, e qui i temporali sono davvero spaventosi, vedi accumularsi minacciose le nubi e tirare il vento e scoppiare i fulmini con un fragore che si espande nello spazio senza trovare ostacoli. L’acquazzone che arriva poi è infinitamente più mite di tutto quel rumore che l’ha preceduto.
Una sera di temporale dunque un cerbiatto terrorizzato è uscito dal bosco e ci si è parato davanti mentre faticosamente arrancavamo sulla nostra auto, spaventati quanto lui. Poi si è dileguato. La presenza di daini e cerbiatti, di cinghiali e istrici, di falchi e di centinaia e centinaia di rondini e passerotti, di picchi e tanti altri uccellini di cui non conosco il nome, dai piumaggi colorati e dalle belle creste azzurre ci ha accompagnato nel nostro villeggiare in questa terra incredibilmente vergine, se si considera che dista pochi chilometri dai centri turistici e dalle vie di comunicazione più battute.
Per non trascurare le sorgenti di calda acqua sulfurea, disseminate nei boschetti e poco conosciute, e i campi di lavanda e gelsomini. Tutti i sensi attivati e nutriti da questa terra generosa.

Bagno Vignoni con la sua storica piscina termale al posto della piazza del paese e i suoi resort di alto livello sono a pochi chilometri e si possono raggiungere a piedi con una deviazione della stessa strada bianca che ci ha condotti alla nostra destinazione.
I ritmi antichi della villeggiatura si sono impossessati di noi nell’arco di poche ore. Il borgo in cui alloggiavamo, composto di sette case di sasso indipendenti, non offriva altro che natura, silenzio, e una bella piscina di acqua “ghiaccia”, come si dice da queste parti. Niente televisore, in compenso il collegamento wifi per non sentirsi completamente tagliati fuori dal mondo. Sole e nuotate la mattina, letture pomeridiane e briscola, dama, scacchi, forza quattro o qualsiasi altro gioco di società la sera. Di uscite mondane non se ne parlava neppure, per via della tremenda strada bianca piena di buche che era già complicato affrontare di giorno, figuriamoci nel buio più totale.


In Val d’Orcia, ma credo in tutta la Toscana, le strade bianche assolvono alla funzione di proteggere il territorio, di mantenere l’integrità della natura e dei borghi antichi. E lo fanno egregiamente, poiché ti costringono a rallentare il passo, a osservare meglio e ponderare gli spostamenti. Da turisti si diventa villeggianti, con i ritmi della villeggiatura d’altri tempi, quando la vacanza era costituita dall’uscire di città e recarsi in qualche paesetto di campagna o di montagna a respirare aria buona, bere il latte delle mucche e fare lunghe passeggiate.
Unica distrazione la sagra paesana con la pista da ballo, le bancarelle dei canditi, dello zucchero filato e del croccante, le donne anziane che cucinavano per tutti i piatti della tradizione contadina. Quando andava bene arrivava un piccolo luna park, che con gli autoscontri diventava il centro di attrazione principale.
La villeggiatura ha le sue radici nella tradizione della Roma antica, in cui l’“otium”, vita contemplativa e nutrimento culturale dello spirito, si contrapponeva al “negotium”, impegno quotidiano nella vita politica attiva. La saggezza di quella civiltà riteneva l’otium importante come luogo privilegiato di osservazione distaccata della realtà, spazio di ascolto interiore, in cui ritemprarsi e far germogliare nuove idee, stimolate dalla lettura dei grandi pensatori e dei poeti, perché senza una visione del mondo era chiaro che non si poteva costruire nessun futuro.

Nel Rinascimento, a Venezia si inventa il termine villeggiatura, come continuazione ideale dell’otium dei Romani, in cui coltivare la bellezza, l’arte e il silenzio nel contatto con la natura, nella villa, che è il fuori città, la campagna.
Il grande successo attuale degli agriturismi nasce forse dallo stesso bisogno di discontinuità con i ritmi quotidiani e di recupero del contatto con la natura.
Nel nostro angolo di verde paradiso abbiamo visto le case riempirsi e svuotarsi di turisti provenienti da tutte le parti del mondo, nonostante la collocazione scomoda ed economicamente non conveniente rispetto agli alberghi e ai bed and breakfast dei paesi e delle città d’arte vicine.
Quindi erano in cerca di qualcosa di diverso, antico e modernissimo: vivere nell’autenticità dei ritmi naturali, abbassare il tono, o il frastuono delle parole e lasciar parlare gli elementi nel loro linguaggio universale. Vedere i colori, sentire gli odori, farsi cullare dal vento, scaldare dal sole o sferzare dalla pioggia per ritrovarsi nel contatto concreto con le cose.

Aprire le finestre al mattino e salutare Montalcino che in cima alla sua collina usciva dalla nebbia a poco a poco, vedere il gregge delle pecore che si avviava al pascolo incalzato e contenuto dai cani da pastore, sentire il profumo del fieno tagliato, mentre i grappoli nel vigneto, sempre più dorati, costituivano una dolce preda per fitti stormi di passerotti e di rondini golosi che vi si buttavano a capofitto tutti insieme dai fili su cui fino a un attimo prima avevano riposato.
Dalla colazione alla cena tutto avveniva con calma, inevitabilmente. E ogni fase della giornata aveva il suo colore e il suo odore unico, i gesti da compiere e le cose da fare o non fare.
E le ore rotolavano via senza fatica e turbamenti, ben riempite dalla meraviglia di essere immersi nella curata bellezza del luogo.
Il ritorno ci ha colto bruscamente quando, ormai alle porte della nostra città, abbiamo fatto tappa in un ristorante per il pranzo. Due megatelevisori ai lati opposti del locale ci bombardavano delle stesse notizie che ci eravamo lasciati alle spalle dieci giorni prima, con le stesse parole, e gli stessi toni allarmati e allarmanti, come se il tempo, nel frattempo si fosse cristallizzato.
Il desiderio di tornare sui nostri passi e voltare le spalle al vuoto assordante e inutile che ci si preannunciava è stato forte.
Ma più forte è stata la responsabilità di testimoniare che nel nostro paese, insieme a mille contraddizioni e problemi, esistono la bellezza, l’armonia, la semplicità, l’operosità e l’intelligenza che hanno disegnato con mani da artista interi territori, dove ancora si può vivere una vita vera e soddisfacente. E la risposta alle contraddizioni e ai problemi è ancora e sempre lì.
Daniela Faccenda